Fonte: Farmacista33
Asma: olio di pesce previene costrizione vie aeree da esercizio
Fonte: Farmacista33
Successo per il trattamento nutrizionale per malati di tumore lanciato dal reparto di Gastroenterologia e Nutrizione Clinica dell’ Ist di Genova. «A un solo mese dall’ avvio del progetto abbiamo ricevuto più di 50 chiamate da tutta Italia e dall’ estero», dice il responsabile del reparto Attilio Giacosa. Il progetto, fondato sulla somministrazione di un mix a base di Epa (uno degli acidi grassi polinsaturi “omega 3” dell’ olio di pesce), è stato avviato dopo una ricerca internazionale durata 5 anni. «Elimina le perdite di peso», dice Giacosa, «migliorando la qualità della vita dei pazienti che conservano energie e massa muscolare».
Fonte: Repubblica — 07 agosto 2003
Il pesce prima degli esami torna in auge. La motivazione era forse scorretta (l’ utilità del fosforo è stata messa in dubbio). Ma sull’ effetto finale, generazioni di mamme di studenti avevano visto giusto.
Fernando Gomez-Pinilla, un neuroscienziato dell’ università della California a Los Angeles, ha infatti passato in rassegna 160 studi sul rapporto fra cibo e cervello e ha pubblicato su Nature Reviews Neuroscience lo studio più completo su come la dieta possa influenzare capacità cognitive e memoria.
A passare l’ esame sono soprattutto gli omega-3, acidi grassi di cui sono ricchi pesci, kiwi e noci. Sono uno dei mattoni principali delle membrane che circondano i neuroni. Attraverso di esse, come una dogana, passano tutti i segnali che le cellule del cervello si trasmettono quando devono calcolare, ragionare, ricordare, provare emozioni, trasmettere ordini ai vari muscoli del corpo.
Quando nel 2007 la pediatra Sheila Innis dell’ università di Vancouver ha pensato di prendere un gruppo di bambini tra i 6 e i 12 anni e di fornirgli un supplemento quotidiano di omega-3, i loro risultati scolastici sono migliorati. I 396 scolari australiani e i 394 indonesiani coinvolti nell’ esperimento hanno ottenuto voti più alti nei compiti di abilità verbale e apprendimento mnemonico.
Ma uno studio simile, svolto a Durham, è stato criticato perché aveva ricevuto finanziamenti da una ditta produttrice di omega-3. «Questi acidi grassi – conferma comunque Gomez-Pinilla – sono importanti per la formazione di molte molecole che migliorano la memorizzazione». Di fronte al rischio di esagerare le virtù di questo o quel nutriente, il presidente dell’ Istituto italiano di ricerca per gli alimenti e la nutrizione Carlo Cannella fa presente: «Mangiare pesce due volte a settimana, o tre nel caso dei bambini, fa sicuramente bene. Assumere omega-3 sotto forma di integratori alimentari può essere un rischio.
Esistono infatti dei tetti che non vanno superati, e prima di entrare in farmacia è bene farsi dare consigli dal medico». Come dimostra la rapidità con cui il pesce inizia a puzzare, gli acidi grassi che arrivano dal mare sono molecole poco stabili, e tendono a degradarsi con facilità. «Se mettiamo gli omega-3 nel latte – prosegue Cannella – creiamo un accostamento innaturale. Mangiare un bel pesce rimane la soluzione più conveniente». Non di solo pesce è comunque fatto il menù del cervello. E se si va a cercare sulla cartina del mondo il paese meno afflitto dal morbo di Alzheimer, è in India che si va a finire. Gomez-Pinilla lega la circostanza alla diffusione di una spezia usata per conservare e insaporire i cibi: la curcuma. «La curcumina, il principio attivo di questa spezia, protegge le cellule del cervello perché è un forte antiossidante». Se gli omega-3 fluidificano il traffico delle informazioni fra i neuroni (e sono indicate per i bambini che vanno a scuola), gli anti-ossidanti frenano il decadimento del cervello durante la terza età. Accanto alla curcuma, utili per puntellare la memoria che perde colpi sono i flavonoidi di vino rosso, cioccolato fondente e tè verde e le vitamine C ed E (agrumi, noccioline e olii vegetali).
L’ acido folico di spinaci, lievito e succo d’ arancia gioca il suo ruolo nella stabilizzazione dell’ umore, mantenendo a distanza alcuni tipi di depressione. Uno studio pubblicato su Lancet l’ anno scorso mostrava come questo composto fosse anche in grado di rallentare il declino cognitivo negli anziani. Se il cibo fornisce al corpo energia, e l’ organo che più ne brucia è il cervello, è normale che fra alimentazione e intelletto si stabilisca un rapporto privilegiato. «Il cibo è come un farmaco per il nostro organo del pensiero», spiega Gomez-Pinilla. Secondo lui, durante l’ evoluzione umana il volume del cervello avrebbe iniziato a espandersi proprio quando i nostri antenati cominciarono a nutrirsi con grandi quantità di acidi grassi del tipo Dha, che l’ organismo non è in grado di sintetizzare da solo e deve prendere dai cibi.
Alcune carenze dietetiche, secondo il neurologo di Los Angeles, si potrebbero in parte spiegare anche con una carenza alimentare. In una tabella del suo studio appare infatti che Germania, Stati Uniti e Canada – i paesi con il più basso consumo di pesce – sono anche quelli maggiormente toccati dalla depressione. All’ importanza della dieta per il cervello, Gomez-Pinilla aggiunge quella di un ricco sonno (durante il quale si consolidano i ricordi e si rafforza la memoria) e dell’ attività fisica. Era da qui che il neurologo aveva iniziato i suoi studi sulla salute dell’ organo del pensiero. Salvo finire, dopo la ginnastica, su una tavola imbandita in cui, a guardare bene, neanche alla gola si fa mancare nulla.
Fonte: Repubblica — 21 luglio 2008
E’ rimasto per lungo tempo un mistero perche’ gli eschimesi della Groenlandia e gli abitanti dei villaggi costieri del Giappone e dell’Alaska avessero una cosi’ bassa incidenza di mortalita’ cardiovascolare rispetto alle popolazioni dell’Europa e degli Stati Uniti. Il divario era troppo rilevante (un 7 per cento contro il 40) per non scatenare, dopo le prime osservazioni di Dyerberg e Bang nel 1978, e ricercatori di mezzo mondo alla scoperta dei reconditi fattori protettivi. L’iniziale ipotesi genetica cadde quando si osservo’ che l’invidiabile prerogativa veniva persa da quei soggetti che, emigrando in altre zone, assumevano abitudini alimentari diverse. L’attenzione fu allora rivolta alla nutrizione di quelle popolazioni, basata essenzialmente sul consumo di pesce (soprattutto acciughe, sardine e sgombri) e di carni di mammiferi (foche e trichechi), che a loro volta si nutrono di pesci. Ma anche questo indirizzo di ricerca si scontro’ con un’apparente incongruenza: coronarie pulite e un’alimentazione ricchissima in grassi (oltre il 60%). Fu per questo che si parlo’ di «paradosso eschimese». Il mistero comincio’ a diradarsi quando vennero individuati i prodigiosi fattori protettivi in alcuni acidi grassi polinsaturi della serie OMEGA-3 (detti anche n-3), presenti in abbondanza nel grasso dei pesci dei mari freddi. Sostanza che i pesci assumono cibandosi di fito-plancton e di zoo-plancton. La proprieta’ che rende tanto prezioso l’apporto dei due OMEGA-3 piu’ significativi, l’eicosapentaenoico e il decosaesaenoico, (Epa e Dha) e’ quella di entrare a far parte della struttura delle membrane cellulari degli elementi circolanti del sangue e dell’endotelio (il rivestimento interno dei vasi), dotandole di plasticita’ e di funzionalita’ ottimali anche a temperature molto basse. E’ essenziale, per esempio, che i globuli rossi siano dei bravi contorsionisti, abbiano cioe’ una buona deformabilita’, per poter passare facilmente attraverso i capillari che hanno un diametro piu’ piccolo del loro. Altre benefiche proprieta’ che fanno si’ che gli OMEGA-3 agiscano a diversi livelli nella prevenzione dell’aterosclerosi sono quelle di abbassare i trigliceridi, di ridurre l’aggregabilita’ piastrinica (e quindi la possibilita’ che si formino trombi), di influire positivamente il tono vascolare. Recentemente e’ giunto agli OMEGA-3 un prestigioso riconoscimento al merito cardio-vascolare da parte di un ampio studio multicentrico, programmato e condotto per cinque anni dal Gruppo italiano per lo studio della sopravvivenza nell’infarto miocardico (Gissi), costituito dall’Associazione nazionale medici cardiologi ospedalieri (Anmco) e dall’Istituto Mario Negri. Gruppo gia’ famoso per altri tre studi clinici di assoluta rilevanza internazionale: il Gissi-1 e il Gissi-2, che hanno esplorato la fase iperacuta dell’infarto, e il Gissi-3 che ha indagato sulla fase del post-infarto col paziente ancora ricoverato in ospedale. Lo studio appena concluso, denominato Gissi-prevenzione, si era posto come obiettivo primario quello di valutare se l’aggiunta di OMEGA-3 e di vitamina E alla migliore terapia convenzionale e alla migliore dieta (”mediterranea”, naturalmente), potesse svolgere negli anni successivi ad un primo infarto del miocardio un’ulteriore azione preventiva nei confronti della mortalita’ totale, dell’insorgenza di un secondo infarto e dell’ictus. L’indagine ha coinvolto 11.324 soggetti che avevano subito un infarto da meno di tre mesi, gia’ dimessi dall’ospedale, e piu’ di 500 cardiologi di 172 centri ospedalieri di cardiologia. I pazienti sono stati suddivisi, in modo randomizzato (cioe’ a caso) in quattro gruppi numericamente omogenei: il primo ha ricevuto giornalmente un grammo di OMEGA-3; il secondo 300 milligrammi di vitamina E (noto antiossidante); il terzo sia gli OMEGA-3 che la vitamina E; il quarto, che ha rappresentato il gruppo di controllo, la piu’ aggiornata terapia convenzionale. Dai risultati pubblicati su «The Lancet» e’ emerso che l’aggiunta di OMEGA-3 ha determinato una riduzione del 15% di incidenti cardiovascolari successivi: morte, secondo infarto e ictus; che la contemporanea somministrazione di OMEGA-3 e vitamina E non ha prodotto benefici aggiuntivi; che l’aggiunta della sola vitamina E ha prodotto una tendenza favorevole, ma non tale da essere considerata significativa. Se gli OMEGA-3 fanno bene agli infartuati, possono essere considerati anche fattori di prevenzione primaria per la popolazione generale. Ed e’ piu’ plausibile l’affermazione che mangiare piu’ pesce (meglio se di mare, meglio se «azzurro»), almeno due volte alla settimana e’ utile a tutti.
Fonte: La Stampa 07-08-2002
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SEMPRE piu’ spesso si sente dire che alla salute dell’apparato cardiocircolatorio fa bene mangiare pesce grasso almeno una volta alla settimana; in alternativa, si puo’ ricorrere ogni giorno a capsule contenenti mezzo grammo di grassi di pesce. Questi sono trigliceridi di acidi detti appunto grassi, appartenenti alla categoria nota come OMEGA-3 o n-3.
Non possono essere sintetizzati dal nostro organismo, ma vanno assunti dall’esterno. John Stanley, biochimico di Oxford, ha recentemente sostenuto che prevengono l’aritmia e riducono la probabilita’ di fibrillazione ventricolare, una delle cause d’arresto cardiaco, proteggendo cosi’ dalla morte improvvisa dovuta a un attacco di cuore.
Sempre dalla Gran Bretagna c’informano ora che c’e’ un motivo in piu’ per andare in pescheria. Alcuni scienziati dell’universita’ di Cardiff, infatti, hanno spiegato perche’ i grassi provenienti dal pesce alleviano il dolore e l’infiammazione dovuti all’artrite. E’ questa una malattia che colpisce le articolazioni, deformandole e riducendone le possibilita’ di movimento.
I ricercatori sostengono che gli acidi grassi OMEGA-3, quando sono portati dal sangue alla cartilagine e giungono all’interno delle sue cellule, dette condrociti, hanno vari effetti benefici. Riducono l’attivita’ di certi enzimi proteolitici responsabili del danneggiamento, come le aggrecanasi, che causano l’erosione cartilaginea. Inoltre gli acidi suddetti bloccano la sintesi di citochine, come l’interleuchina-1 e il fattore di necrosi tumorale, le quali, oltre a essere esse stesse infiammanti, stimolano la produzione di altre citochine da parte della cartilagine, portando cosi’ al peggioramento cronico dell’artrite. Dai grassi del pesce viene bloccato anche un altro enzima, la ciclo-ossigenasi-2, considerato uno dei maggiori responsabili del dolore e dell’infiammazione. Detto anche prostaglandina-sintetasi, l’enzima, come dice il nome, permette la biosintesi di alcune prostaglandine. Queste, insieme con composti a esse collegati, essendo sostanze irritanti, stimolano i nervi e procurano dolore. Nell’organismo e’ normalmente presente un enzima detto ciclo-ossigenasi-1, responsabile della biosintesi degli acidi grassi eicosanoidi, importanti nel mantenere le condizioni fisiologiche durante il metabolismo cellulare.
Gli acidi grassi OMEGA-3 non interferiscono con questo enzima importante, ma bersagliano solo il suo parente dannoso. La scoperta degli scienziati di Cardiff e’ percio’ particolarmente promettente, perche’ le industrie farmaceutiche stanno cercando sostanze sempre piu’ efficaci contro una malattia tanto dolorosa e invalidante come l’artrite; una linea di ricerca particolarmente battuta negli ultimi tempi si basa proprio sull’inibizione dell’enzima ciclo-ossigenasi-2.
Gli studi compiuti a Cardiff hanno quindi dato una giustificazione scientifica al vecchio uso dell’olio di fegato di merluzzo. Impiegato nella concia delle pelli e come tonico primaverile dalle famiglie di pescatori in Norvegia, Islanda, Scozia e Terranova, esso ebbe infatti gran successo anche come rimedio popolare contro artrite, reumatismi, gotta e tisi. I medici dell’ospedale di Manchester lo usarono con buoni risultati a partire dal 1770. La voce comincio’ a spargersi, ma ci volle l’uscita di una pubblicazione nel 1841 per suscitare un grande interesse. Qualche decennio dopo, un tal Charles Fox, chimico inglese, uso’ lo stesso olio per impregnare cerotti, lontani precursori dei dispositivi transdermici oggi tanto in voga per la somministrazione di farmaci. Sebbene consigliato anche per altri motivi, e cioe’ per l’alto contenuto di vitamine A e D, l’olio di fegato di merluzzo non ha mai incontrato simpatie per il gusto e l’odore sgradevoli.
Ma ora in commercio esistono capsule comode da ingoiare. E anche per rifornirsi solo di acidi grassi OMEGA-3, senza tutti gli altri principi contenuti in quell’olio, chi non mangia volentieri pesce puo’ andare in farmacia. In un modo o nell’altro, possiamo cosi’ assumere questi grassi cosi’ utili e privi di effetti collaterali sgraditi. Essi non contengono steroidi e, a differenza dell’aspirina, comunemente usata come antinfiammatorio, non danneggiano lo stomaco.
Uno studio clinico gia’ cinque anni fa aveva dimostrato che prenderli per tre mesi riduce i dolori e la rigidita’ articolare. Al giorno d’oggi e’ possibile incorporarli nei cibi, senza che il sapore venga alterato. Si possono aggiungere, per esempio, a burro, margarina, maionese, pane, biscotti, yogurt. Per ora i consumatori intervistati in proposito, pur capendo l’importanza di quell’apporto dietetico, sono sembrati piuttosto scettici. Lo stesso si deve dire per la maggioranza dei produttori, ma probabilmente un’educazione nutrizionale appropriata potra’ portare ad alimenti validi sia da un punto di vista dietetico sia da quello organolettico.
Fonte: La Stampa 23-08-2000
IL ritrovamento di reperti fossili nell’Africa Orientale aveva finora indotto gli studiosi a ritenere che i primi ominidi si nutrissero prevalentemente di animali della savana, spingendoli a rifiutare la teoria nutrizionistica sulle origini dell’Homo sapiens. Da tempo infatti i nutrizionisti sostengono che particolari acidi grassi di cui sono ricchi soprattutto gli animali marini (OMEGA-3 Lcp) hanno un ruolo fondamentale nello sviluppo del cervello e quindi hanno un peso determinante nell’evoluzione dell’uomo moderno. Oggi invece ci sono prove decisive a dimostrazione che questi fossili si trovavano in realta’ proprio nelle vicinanze di un antico mare formatosi nella Rift Valley dell’Africa Orientale, quando era congiunta con il Mar Rosso. L’oceano presente in questa regione forniva una base alimentare unica che ha consentito l’aumento di dimensioni del cervello umano culminando nella comparsa dell’Ho mo sapiens. I laghi del “proto-oceano”, come viene definito, erano ricchi di pesci tropicali e molluschi: entrambi contengono livelli di acidi grassi OMEGA-3 Lcp simili a quelli presenti nel cervello umano (Epa = acido eicosapentaenoico; Dha = acido docosaesaenoico). Una variazione nelle abitudini alimentari degli ominidi, con l’introduzione di alimenti di qualita’ piu’ elevata si verifico’ circa 2 milioni di anni fa e fu accompagnata da un aumento delle dimensioni relative del cervello e da un processo di evoluzione che ha portato allo sviluppo fetale e neonatale odierno. Uno studio pubblicato sul British Journal of Nutrition condotto da tre Universita’ (Beltsville-Toronto-London) rispettivamente da Broadhurst, Cunnane e Crawford, ha accertato che l’introduzione di alimenti di origine marina nella dieta degli ominidi permise infatti di evitare quella carenza di Dha (acido docosaesaenoico) associata alla perdita di volume cerebrale che e’ stata riscontrata invece fra le grandi scimmie e i grandi mammiferi legati ad una alimentazione terrestre. Ricordo che il termine “ominide” si riferisce alla Famiglia degli Ominidi, primati bipedi che vengono considerati un anello della linea evolutiva che porta all’uomo moderno. Il motivo principale per cui questi acidi grassi OMEGA-3 Lcp rappresentano una nutrizione specifica per il cervello e’ dovuto al fatto che il tessuto nervoso dei mammiferi e’ costituito prevalentemente dai lipidi (60% del peso del cervello a secco). Gli acidi grassi essenziali della serie Omega-6 Lcp e OMEGA-3 Lcp devono essere introdotti con l’alimentazione, in quanto non possono essere sintetizzati dal sistema nervoso centrale. Mentre nella maggior parte delle cellule il rapporto fra gli acidi grassi essenziali Omega-6 e Omega 3 e’ di 3-5:1, tale rapporto scende nel cervello a 1-2:1. Il cervello umano si differenzia da quello di altre specie di mammiferi in senso quantitativo, essendo di dimensioni maggiori. Inoltre richiede una quota maggiore di energia metabolica. Durante la fase piu’ attiva dello sviluppo fetale infatti il cervello umano richiede fino al 70% dell’energia totale fornita attraverso la placenta. Questa percentuale scende al 60% dopo la nascita ed e’ di appena il 20% negli adulti. Gli autori dello studio concludono dicendo che, se gli acidi grassi OMEGA-3 Lcp rappresentano elementi nutritivi discriminanti per lo sviluppo del cervello umano, ne consegue che un’assunzione cronicamente inadeguata di queste sostanze provochera’ uno sviluppo non ottimale del cervello sia nei singoli che nell’intera popolazione.
Fonte: La Stampa 08-04-1998
Umore sempre ‘positivo’ grazie agli omega 3, acidi grassi presenti soprattutto in alcuni tipi di pesce, come il salmone. Alte quantità di queste sostanze, infatti, si sono dimostrate in grado di influire sulla struttura cerebrale e in particolare di aumentare il volume di zone del cervello collegate al comportamento e, appunto, all’umore. Lo dimostrano alcune sperimentazioni effettuate all’università di Pittsburgh (Usa), presentate oggi in occasione del meeting annuale dell’American Psychosomatic Society, in corso a Budapest (Ungheria). Già lo scorso anno, durante lo stesso incontro scientifico, alcuni esperti avevano presentato dati secondo cui le persone con i più bassi livelli di questi acidi grassi risultano più amabili e, oltretutto, meno in pericolo di sviluppare sintomi di depressione. Nel nuovo studio, Sarah Conklin ha intervistato 55 adulti sani per determinare il loro apporto medio di omega 3 e valutare il volume della loro materia grigia in corrispondenza della corteccia cingolata anteriore bilaterale, dell’amigdala destra e dell’ippocampo destro. Cioè le aree collegate con la gestione delle emozioni. I risultati, ottenuti grazie anche alla risonanza magnetica, suggeriscono che gli acidi grassi promuovono l’aumento della massa di queste aree, che invece in persone depresse o con disturbi del comportamento risultano ‘ridotte’. “Saranno ora necessari approfondimenti – dice Conklin – per valutare come e perché un ingente consumo di pesce ‘modifica’ il cervello”.
Fonte: Adnkronos Salute 7/03/2007
Fumatori, mangiate pesce, e proteggerete i vostri polmoni! E’ l’ultima novità in tema di prevenzione anticancro, e viene dal “New england journal of medicine”, ed è frutto di una statistica effettuata all’università del Minnesota. «Abbiamo studiato i sintomi di bronchite ed enfisema in 8900 pazienti, in quattro diversi Stati», ha spiegato il dottor Aaron Folsom, epidemiologo. «Ebbene, le persone che mangiavano pesce almeno quattro volte alla settimana sviluppavano i disturbi polmonari presi in esame, rispetto a chi mangia pesce una volta alla settimana, almeno nel 45 per cento dei casi». In base a quale meccanismo? «Noi pensiamo che siano alcuni acidi grassi (gli omega-3), che si trovano nel pesce, a esercitare una azione positiva. E in particolare contro la infiammazione e la degenerazione dei tessuti polmonari, così frequenti nei fumatori accaniti». Anche, in alcuni ospedali, è stata introdotta una dieta a base di pesce, a scopo preventivo. Da questo punto di vista andrebbero bene soprattutto le aringhe, i salmoni, le acciughe, il tonno, le sardine e il pesce spada. Niente frittura, però: meglio la bollitura o la cottura a vapore.
Fonte: Focus – 26
15/12/1994
Una ricerca inglese su 9mila famiglie indica che il consumo di prodotti ittici i gravidanza favorisce lo sviluppo cerebrale
LONDRA- Le future mamme che vogliono avere figli molto intelligenti non dovrebbero farsi mancare il pesce dalla dieta durante la gravidanza. Questo perchè questo tipo di alimento è ricco di nutrienti, tra cui gli acidi grassi omega 3, molto utili nello sviluppo del cervello dei bambini.
A suggerire questo indirizzo alimentare è una ricerca dell’Università di Bristol, pubblicata sulla rivista medica inglese «The Lancet» dopo un’indagine condotta su novemila famiglie britanniche.
La conclusione degli studiosi inglesi ribalta le conclusioni di un precedente studio americano che suggeriva di limitare più possibile il consumo di prodotti ittici per paura di assorbire il mercurio dovuto all’inquinamento dei mari. Anche la Food Standards Agency, l’Ente britannico per l’alimentazione, aveva sposato la teoria Usa e consigliava di non mangiare carne di squalo, pesce spada e tonno in quanto potevano contenere alti livelli di mercurio.
LO STUDIO – Gli scienziati hanno confrontato la quantità di pesce mangiata da madri incinta con lo sviluppo del cervello dei loro bambini fino all’età di otto anni. I figli, se le mamme hanno mangiato più prodotti di mare di quelli consigliati dalle linee guida statunitensi, svilupperebbero capacità motorie più avanzate, migliori abilità comunicative e di socializzazione sin da piccoli e si distinguerebbero anche per avere comportamenti sociali positivi. All’età di otto anni, poi, raggiungono un ottimo livello di comunicazione verbale.
Le direttive americane che consigliavano di ridurre al minimo il consumo di prodotti ittici sono, tra l’altro, già smentite dai fatti: gli unici casi noti di avvelenamento da mercurio sono stati riscontrati in Giappone negli Anni cinquanta e sessanta quando le industrie del Sol Levante furono responsabili di un massiccio inquinamento del mare che causò non pochi problemi.
(Fonte Corriere della Sera Salute 16 febbraio 2007)